La destinazione del Bussento è un groviglio di borghi e paesi eccellenti che dalla collina si affacciano verso il mare, unico e inimitabile, del Cilento. Scopriamoli insieme.
Noi di Yes Cilento ti portiamo con noi in questo fantastico viaggio tra le mete del Bussento, in particolare dei paesi vicino Sapri: Torraca, Tortorella, Casaletto Spartano, Morigerati, Villamare, Vibonati, Capitello, Ispani, Policastro e Scario. Con la precisione di una lente d’ingrandimento ti mostriamo ogni paese proponendo un excursus storico oculato e preciso. Trascinando idealmente il dito in una cartina geografica seguirai passo passo l’itinerario e la posizione di questi luoghi ricchi di cultura, storia e racconti ancora poco noti. Il punto di partenza sarà Sapri, ideale per esplorare le due direttrici lungo le quali si sviluppa il territorio di questo lembo estremo del Cilento: la collina, fascinosa e selvaggia, che custodisce inattese meraviglie, e il mare, che avvolge e incanta lungo una costa senza pari.
Sapri spalanca la porta del Golfo di Policastro. A chi arriva da sud, dai monti di Lagonegro o dalla costa di Maratea in Basilicata, o a chi scende dai treni a lunga percorrenza che collegano la patria della Spigolatrice con le principali città italiane. Da anni comune capofila del Golfo, Sapri ne è il paese più grande e sviluppato, diviso fra le tradizioni marinare e il settore terziario (scuole, uffici, commercio) che impiega la maggior parte della popolazione.
Subito a nord di Sapri si trova il comune di Torraca, un suggestivo borgo medioevale ricamato di archi, portali, vicoli e scalinate di pietra, un grumo di case incastrate come tessere di un mosaico e affacciate sul verde pendio che digrada fino all’azzurro assoluto del mare.
Fondato probabilmente intorno all’anno mille dai monaci basiliani in fuga dall’oriente greco, vittime di una feroce campagna contro il culto delle icone sacre scatenata dagli imperatori di Bisanzio, il centro prosperò in età feudale, passando nelle mani di vari signori fino all’abolizione della feudalità nel 1806. I francesi che decretarono la fine dell'odioso istituto distrussero anche l’archivio della chiesa parrocchiale, disperdendo così un patrimonio inestimabile di documenti relativi alla storia locale. A testimoniarla restano, nella parte più alta del borgo, il castello dei baroni Palamolla, imperioso e ben conservato, e poi la chiesa di san Pietro apostolo, lo storico palazzo del municipio, la mitica cappella diruta dedicata a san Fantino, frate ed eremita, che proverebbe la presenza dei monaci italo-greci nella zona. Suggestivo è anche il santuario della Madonna dei Cordici, una semplice chiesetta con un abbozzo di campanile affacciata su un ampio piazzale che gode di una vista mozzafiato sulla baia di Sapri e sul Golfo di Policastro. Alla Madonna si rivolsero i cittadini minacciati dai cannoni francesi nel 1799: una nebbia fitta avvolse l’intero abitato, sottraendolo alla vista dei soldati, mentre la statua della Vergine si imperlava di sudore sulla fronte. Scongiurato il pericolo, la miracolosa essudazione cessò e Torraca riapparve in tutto il suo splendore. Lo stesso splendore consegnato all’eternità dell’arte dal realismo appassionato dei quadri di un figlio illustre, Biagio Mercadante, testimone (nel Novecento) dell’ultima “età incantata” di questa terra.
Salendo di quota si incontra il comune di Tortorella, che spicca appollaiato su un sito da Meseta e domina su uno scenario di balze e valli che degradano fino al mare. Lo spirito del Cilento è tutto racchiuso in una trama di palazzi antichi e decorosi, piazze panoramiche, groppi di vicoli e saliscendi che portano a scoprire tesori d’arte semplice.
La tradizione popolare fa risalire la fondazione del paese all’anno 950, quando alcune famiglie di Tortora, centro dell’entroterra cosentino, si trasferirono in cima al colle per sfuggire all’insidia dei pirati saraceni. In realtà, secondo l’ipotesi più accreditata, il nome Tortorella deriverebbe dal latino “turtur” e significherebbe “piccola tortora”, con riferimento all’uccello che vive e nidifica nell’area del borgo. Nel medioevo il paese fu retto dai Longobardi, dagli Svevi e poi da una serie di nobili famiglie fino all’abolizione della feudalità. Oggi l'eredità di oltre mille anni di storia si annida nei fregi e nei portali delle dimore nobiliari, nei ruderi dei mulini ad acqua lungo il torrente Bussentino, nella Porta Suctana con gli annessi resti della cinta muraria, nella Porta dei Cantoni con la spianata del “ribellino” (dove i ladri erano messi alla gogna), nel dedalo di stradine che sbocca sull’ariosa piazza Umberto I, con la chiesa madre dell’XI secolo dedicata a santa Maria Assunta. L’idillio di una natura intatta aggiunge al borgo una grazia quasi fatata.
In una vallata a nord-est di Tortorella è distesa Casaletto Spartano, circondata da boschi di querce, castagni, larici, vitalbe e mortelle tipiche della macchia mediterranea. Piazza del Municipio, con la bella chiesa di san Nicola è il cuore pulsante del borgo, che ha sembianze di labirinto. Il nome del paese deriva dal latino “Casalictum”, nel senso di “piccolo casale”, e fu integrato dopo l’unità d’Italia dall’appellativo “Spartano” che, lungi da ogni riferimento alla bellicosa città greca, rimanda invece allo “sparto”, una graminacea immarcescibile con foglie dure e affilate come lunghe lame, abbondante in queste campagne. La pianta era usata, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, per la confezione del “libbàni”, corde di particolare robustezza impiegate come sartiame nelle imbarcazioni ovvero per la coltivazione dei mitili e, prima dell'avvento della plastica, per la realizzazione di cesti, gerle e panieri.
Nel borgo il lascito della storia passata è consistente: chiese, palazzi e lo splendido santuario della Madonna dei Martiri, risalente al 1300. La frazione di Battaglia custodisce l’imponente palazzo Gallotti, caratteristico per le torrette laterali ai quattro angoli e oggi trasformato in elegante struttura ricettiva. Il patrimonio naturalistico si dispiega intorno al Rio di Casaletto o Rio Capello. Tutti legati al torrente sono i siti più interessanti, in particolare il mulino ad acqua allestito a museo della civiltà contadina e la splendida cascata Capelli di Venere, formata dal fiumiciattolo su uno sperone di roccia tappezzato di esemplari della felce “capelvenere”, che davvero sfrangia il corso d’acqua in una chioma fluente di minuscoli rivoli d’acqua purissima, trasparenti ora, ora verdeggianti.
Procedendo in linea retta da Tortorella verso ovest si trova Morigerati, issata su un piccolo rilievo come una miniatura di raffinata urbanistica medioevale. Una manciata di strade gira intorno al palazzo baronale e alla chiesa di san Demetrio, risalente al Trecento, col belvedere affacciato sulla frazione di Sicilì. Il nome del paese deriva forse da “morgia”, termine indicante un’altura o una sporgenza rocciosa, oppure dal greco “muriké”, che designa l’arbusto della “tamerice”.
Fondata probabilmente dai monaci basiliani, Morigerati ha visto accumularsi nei secoli un patrimonio di storia e civiltà che oggi trova il suo compendio nel Museo Etnografico agro-silvo-pastorale, autentico fiore all’occhiello del piccolo borgo. Creato nel 1976 da due maestre elementari, le sorelle Clorinda e Modestina Florenzano, il museo raccoglie una serie di oggetti emblematici della civiltà contadina del Cilento, suddivisi in vari settori. Tesoro naturalistico del borgo sono invece le splendide grotte del Bussento, laddove il fiume – sprofondato alcuni chilometri più a monte, nell’inghiottitoio “la Rupe” presso Caselle in Pittari – riemerge dal ventre della terra attraverso un’incantevole risorgiva. Dal 1985 il sito è tutelato come Oasi del WWF.
Il secondo itinerario turistico, che da Sapri si inoltra lungo la costa del Golfo di Policastro, porta all'incontro con incantevoli marine, frazioni di piccoli comuni collinari dalla lunga storia e dalla preziosa struttura. Villammare, il primo borgo costiero procedendo verso nord, è frazione di Vibonati. Conserva le caratteristiche del villaggio di pescatori, col fronte degli eleganti palazzi di villeggiatura dei nobili del capoluogo, la bella chiesa di santa Maria di Portosalvo quasi in riva al mare e, in posizione rialzata, la splendida torre spagnola detta "Petrosa", oggi dimora privata.
Più in alto, Vibonati è un grumo di case abbarbicate a un colle, impreziosite da eleganti portali, divise da viuzze intricate e sormontate dalla chiesa di sant'Antonio abate, il "vecchio del fuoco", oggetto di profonda venerazione. La chiesa custodisce un dipinto di scuola fiamminga, un organo a canne del Settecento e un fonte battesimale ricavato in un capitello corinzio, e non è l'unico edificio sacro di rilievo nel paese: più giù, all'ingresso dell'abitato, si trova il convento di San Francesco di Paola, che risale al XVII secolo e ospita una suggestiva rappresentazione, per scene "semoventi", della vita di Cristo. Fondato nel IV secolo a. C. ad opera di una comunità fenicia in fuga da Tiro o più tardi dai Romani o ancora, più probabilmente, dai Longobardi (il toponimo unirebbe i termini "wibo", cioè "villaggio", e "are", ossia "corso d'acqua"), il paese ospitò Garibaldi nel 1860 ed è stata cantato da Vicente Gerbasi, poeta venezuelano tra i più grandi del XX secolo, figlio di emigranti partiti da questo incantevole lembo di Cilento.
Proseguendo verso nord lungo la costa si incontra Capitello, il cui nome fa riferimento alle rovine di un acquedotto romano presente in località Sughereto. “Caput” ed “elix” (= solco d’acqua) sono i riferimenti etimologici più accreditati. Per secoli residenza estiva dei conti Carafa della Spina, il paese ne conserva il palazzo di villeggiatura, oggi trasformato in un istituto educativo-assistenziale gestito dalle suore elisabettine. Sull’ampio lungomare non sfugge la presenza di un arco monumentale: era, come attesta lo stemma che lo sormonta, l’ingresso al palazzo dei Carafa, allora affacciato direttamente sulla spiaggia. Poco lontano, sulla collina che protegge il paese a sud, si trova la cosiddetta Torre Normanna, un‘imponente fortezza voluta dagli spagnoli nel XVI secolo come parte di un sistema difensivo esteso lungo tutta la costa dell’Italia meridionale.
In collina il comune di Ispani è un grumo di casette strette come a voler preservare un’anima. Un innato raccoglimento sta scritto nel codice genetico del borgo, nato probabilmente intorno alla dimora di una nobile famiglia (“Casale de li Spani” era detto anticamente) come rifugio per le genti della marina, minacciate dalle incursioni dei pirati turchi. Oggi il paese sopravvive come fosse un tributo a quei giorni di vita precaria e tenace. La pace, tanto anelata, è un regalo da offrire ai visitatori, la storia è custodita nella chiesa di san Nicola di Bari, con la semplice facciata e il bel campanile, la tradizione è onorata nel giorno di ferragosto con la sagra della “cuccìa”, fantasiosa pietanza locale a base di legumi.
Contatto con gli elementi e insieme distaccata visione panoramica si fanno ancora più emozionanti nella frazione montana di san Cristoforo, stupendo balcone affacciato su tutto il Golfo.
Più avanti, lungo la costa, si trova Policastro, che porta scritta nelle sue mura la storia del Cilento. Una cinta che poggia su pietre ancestrali e si innalza su su fino ai merli di cortine torri di avvistamento racconta il bagliore miracoloso della civiltà greca, la potenza “ordinatrice” di Roma e il ginepraio delle vicende medioevali. Dentro sopravvive un paese di archi e sottopassi, portali e cippi, colonne e capitelli come tanti scrigni del passato. Tutto legato a un elemento della natura, il bosso sempreverde simbolo della vitalità indomabile del borgo. I Greci, primi abitatori, lo chiamarono “Pixous”, i Romani lo ribattezzarono “Buxentum” (i nomi si equivalgono nel significato di “paese del bosso”) e nell'87 a.C. lo elevarono a municipio. Una lapide incastonata nella torre campanaria della cattedrale rievoca una storia tragica: nel 13 d. C. Augusto esiliò quaggiù la figlia Giulia Drusilla, lasciata morire di stenti per via della sua condotta “licenziosa”. All’alba del medioevo Bussento si trasformò in Policastro, cioè “città fortificata”. Nell’XI secolo fu abbellita dalla cattedrale di santa Maria Assunta, gioiello di arte romanica, che costituisce ancora oggi il cuore del centro storico. Per tutto il XVI secolo le scorrerie dei pirati turchi costrinsero la popolazione a rifugiarsi sui colli dell’interno, dove prosperò il villaggio di Santa Marina. Fondato dai monaci basiliani prima dell’anno Mille, si sviluppava intorno a una chiesa di rito greco, convertita poi alla liturgia romana dai Normanni.
Dal secondo dopoguerra è sede del comune, fulcro moderno del borgo, mentre la chiesa consacrata a santa Marina e il vicino palazzo Maccarone ne formano il cuore storico. Giù sulla costa la parte nuova di Policastro è un grappolo di case, negozi e locali cresciuto dalla strada statale fino al porto e al mare. L’antico toponimo resta nell’appellativo “Bussentino” e nel nome del fiume, l’incantevole Bussento, che sfocia largo e placido poco a nord dell’abitato, dopo un corso tortuoso reso suggestivo da un tratto sotterraneo.
L'ultima marina del Golfo è Scario, e si tratta probabilmente della più suggestiva. Una schiera di case a seguire la chiesa dell’Immacolata, scaloni di pietra che filano verso le colline incombenti, il lungomare punteggiato di oleandri, due bracci di porto con la darsena. Più in là sta il rione di sant’Anna, con l’antica cappella gentilizia consacrata al culto della “vecchia potente”, nonna di Gesù. Oltre ancora c’è il bel faro, poi la Tragara, una spiaggetta erosa e una passeggiata romantica in penombra fino alla “prima punta”. Dopo solo natura: scogliere e spiagge, comprese nell'Area Marina Protetta del Parco Naturale del Cilento e del Vallo di Diano.
Scario è frazione del comune di San Giovanni a Piro, situato sulle pendici del monte Bulgheria e sorto probabilmente nel X secolo dopo l’insediamento dei profughi di Policastro razziata dai pirati saraceni. Verso il 990, nel sito denominato “Ceraseto”, una comunità di monaci basiliani passata in Italia per sfuggire alla furia iconoclasta degli imperatori di Bisanzio fondò l’abbazia di san Giovanni Battista. Dal cenobio prese il nome anche il villaggio: poche centinaia di abitanti avviati dai frati all’agricoltura e alla pastorizia. Quanto all’appellativo “a Piro”, è probabile storpiatura del latino “ab Epiro” e fa riferimento alla provenienza dei monaci bizantini. Nell’XI secolo, a protezione del cenobio, i monaci basiliani eressero una robusta torre merlata, ancora oggi ben conservata. Nel 1462 l’abbazia fu eretta a commenda ecclesiastica e organizzata secondo gli "Statuti" – raffinato compendio di diritto civile, penale e amministrativo – del celebre umanista Teodoro Gaza. Insidiata dall'avidità dei nobili, la comunità monastica finì per scomparire verso la metà del Settecento.
Ben viva resta invece San Giovanni a Piro, vegliata dalla chiesa di san Gaetano, avvolta nell’abbraccio della natura: un’oasi di raccoglimento all’ombra del titanico Bulgheria. Più in alto, issato sul suo picco, il santuario di Pietrasanta parla di fede ardita e vicina al cielo; poco oltre, lo splendido pianoro di Ciolandrea guarda al Golfo di Policastro fin dove l’orizzonte sfuma e cielo e mare si fondono in un’incerta consistenza di nuvola.
A mezza via tra Scario e San Giovanni sorge l'altra frazione Bosco, oggi suggestiva terrazza sul Golfo e nel 1828 primo focolaio dei moti del Cilento, che invocavano libertà e giustizia dai dispotici re di Napoli. La circostanza è ricordata da un mosaico di mattonelle di ceramica murate all’ingresso del paese: opera del pittore spagnolo José Ortega che, perseguitato dal regime franchista e insieme attratto dalla malia del sud d’Italia, scelse Bosco come “buen retiro”. Luoghi e anime del comune di San Giovanni a Piro si intrecciano a ricamare un paradiso tricolore: toni di bianco, verde e azzurro nella loro purezza più sfacciata. Tutto – natura, arte, quiete, imponente bellezza – offre un’occasione irripetibile per rigenerare il corpo e l’anima.
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